Il più grande spettacolo dopo lo spread

di Alberto Bullado.

Fiorello ha fatto il botto in una nazione dove sono i ministri piangere per i salassi economici e non i loro (non) elettori. Il caso di Fiorello viene quindi buono per parlare di qualcos’altro che non sia la crisi, della quale nessuno ha voglia di capirci nulla. Funziona un po’ come i “telefoni bianchi” durante Mussolini. Altra epoca, altra marca di leggerezza. E di maniera, nelle lodi intessute addosso a Fiorello, anche da parte di una certa intellighenzia progressista, se n’è vista e sentita parecchia. Quindi il lunedì, quando ancora l’Italia profumava di vaselina per le lugubri manovre finanziarie enunciate la domenica, si mette davanti alla tv per ridere ed acquistare non tanto ottimismo e spensieretezza, ma coagulare il proprio senso dell’essere, passando dallo spread allo share. Il risultato è stato un evento collettivo strabiliante. La Rai eiacula anche se il proprio seme è trattenuto dal profilattico di Fiorello che non è andato giù ai preti. Forse è stato proprio il “Salva-la-vita-Pischelli” a mobilitare i nipotini italiani di Voltaire, un po’ ammazzapreti, un po’ chierichetti di Repubblica e dell’Unità. O forse le risatine sdrammatizzanti e garbate sulla crisi e su Berlusconi. In più aggiungici quel mix di professionalità e Roberto Benigni che uno, dicono, dovrebbe aspettarsi dalla tv di stato. E quindi ecco il sospiro di sollievo. L’Italia si riconcilia con il proprio nazionalpopolare. Avviene il miracolo: le forze progressiste ricuciono lo strappo con la plebe televisiva e danno il loro beneplacito: pollice in su. Ad eccezione dei duri e puri, naturalmente, come la Guzzanti (“Fiorello? Noiosissimo”) o Santoro (“Fiorello? Un ansiolitico perfetto”). “Lasciate perdere i soliti comunisti”, sembrano voler dire i moderati, “loro arricciano il naso perché sono snob e non capiscono un cazzo”. E lo dicono coloro che in portafoglio hanno il santino di Veltroni o, se sono più stagionati, della DC.

Ma la verità è che il nuovo “radical chicchismo” non sta più nel dimostrarsi al di sopra, o di esibire eccentricità non convenzionale, ma di volersi dimostrare “nazionalpopolar-friendly”, una diminutio retorica che mantiene, in ogni caso, l’atteggiamento di quelli che sanno una pagina in più del libro. E che vorrebbero farti intendere che il discernimento del banale, nelle loro mani, sia una scienza non solo esatta, ma nobilissima, tanto è il pedigree dei loro affilati neuroni. È il caso dell’agghiacciante articolo di Lorella Zanardo, che dice la sua su Fiorello snocciolando un repertorio assai ricco di perle. Ad esempio dice che Gramsci si sarebbe occupato di Fiorello, che «non è importante se Fiorello ci piace o no», (ah no?) perché se una cosa è «nazionalpopolare occupiamocene!». E poi che «Fiorello si fa portatore di una modalità nuova e contemporanea di relazionarsi alle donne»,  che «Fiorello è un entertainer a tutto tondo: canta, balla, imita, caratterizza, si relaziona a personaggi di alto profilo internazionale con savoir faire» (esticazzi), che «se ti vuoi relazionare a Tony Bennett devi prepararti poiché non basterà fare la gara delle pernacchie», altro che Barbara D’Urso (“che entrino le bocce di Cristina e Francesca”). Ma la Zanardo rincara. Fiorello ha avuto il merito di introdurre «da subito maieuticamente» Elisa. Fiorello ospita la nazionale di pallavolo femminile, tutte gnocche, senza sbavare come un maschio, di modo che le ragazze da casa possano dire: «“Anch’io gioco a pallavolo, magari anch’io potrò gareggiare. E vedi un po’!, per una volta la telecamera non ha inquadrato il culo della giocatrice mentre schiaccia.”», quindi un passo in avanti tale da poter dire che «ha fatto più il nazionalpopolare Fiorello in un mese che Fazio e Santoro in vent’anni». Hai capito? E tutto ciò «accade in tv. Ad una trasmissione popolare». Mai vista tanta grazia. Queste e molte altre argutissime valutazioni. Poco importa se Roberto Benigni fa ridere mezza Italia con la merda (peraltro la parte più riuscita del suo intervento, “moscio” secondo molti) al cospetto di quella stessa Italia nazionalpopolare intenta a sorbirsi “Il più grande spettacolo dopo lo spread”.

Ora io non ce l’ho con la Zanardo, ma con un certo prototipo mentale, l’attitudine, la predisposizione alla blatera, che è pur sempre blatera ma saccente. Se fino a qualche anno fa l’italiano medio era il berlusconiano (alle urne o in divano poco importa), ovvero il figlio del biscione, diretto parente degli italioti dei Mostri di Risi o del Borghese piccolo piccolo di Monicelli e così via (così almeno dice la vulgata), oggi l’italiano medio è quello che dice di non esserlo e che ostenta la sua non appartenenza alla categoria senza però prendere i voti, ma questo solo a parole, della casta degli stronzi. Ci si smarca dal salotto radical chic (etichetta oramai nazionalpopolare) per apparire più radical, ovvero avvicinandosi, paradossalmente, al sentire comune (una partita di ping pong potenzialmente infinita). L’italiano medio è quindi complice del medium di massa qualunquista, compreso quel giornalismo allineato e che si fa carico di simili istanze e che gli italiani apprezzano per via della rassicurante medietà (condivisa praticamente da ogni firma che conta, ma anche da quelle emergenti). Eccolo quindi il nuovo italiano medio: un individuo semplice, smussato, ma egocentrico. Una mediocrità diversa rispetto alla miseria becera del passato, che vive il proprio conformismo come virtù, che esibisce i propri luoghi comuni come sacramenti di una religione cool-lettiva. Un italiano medio evoluto e diversamente imbecille. Meno ignorante e più saccente.

Esiste un vaccino a tutto questo e si chiama Fulvio Abbate, scrittore, giornalista, intellettuale di sinistra, videoblogger, padre di Teledurruti. Un personaggio sarcastico ed autoironico che non sempre viene capito. E cosa dice il “marchese” Fulvio Abbate? Che «dalla scorsa settimana, la televisione ha un patrono nuovo, san Rosario Fiorello da Valtur. Un Padre Pio, decisamente spigliato, in smoking» le cui battute sono «da refettorio-minigolf». Siamo quindi «al Bagaglino dal volto umano». Il patron di Teledurriti si accanisce contro san Rosario, ma non con il fare del rosicone dell’ultima ora, no, lui, il Fiorello nazionale, lo tiene d’occhio da molto tempo, senza concedergli quartiere. Non tanto per disprezzare la persona in sé, ma per opporsi alla cifra culturale che rappresenta e che diffonde. Quell’aura che gli italiani assimilano come un’inestimabile fragranza, come fossero distesi sul lettino abbronzante dell’umana virtù. E quindi pane al pane e vino al vino: Fiorello è un qualunquista. O forse, peggio, l’erede di Berlusconi: «la simpatia come mistificazione, il luogo comune come narcosi, la barzelletta come idea della critica dell’esistente», il tutto da celebrare durante il clistere serale davanti alla televisione. In questo modo Rosario Fiorello, responsabile della «liberalizzazione dell’altrimenti impresentabile Ignazio La Russa», sale al «trono più alto dell’auspicata calma piatta mentale televisiva» che «prende il nome di consenso, anzi, di share». Eccolo il rito collettivo, la sublimazione catodica, l’eucarestia della tv di stato. Buona «sia per il cattolico con faccia da economato in ascesa sia per il veltroniano incerto fra referendum a favore delle unioni fra gay e pomeriggio al cinema a vedere “Scialla! (stai sereno)”, un titolo, un programma. Di mezzo c’è “Il più grande spettacolo dopo il weekend”, varietà-breviario della ritrovata illibatezza post-berlusconiana» (da San Rosario Fiorello Fatto Quotidiano del 22 novembre 2011).

E Aldo Grasso che dice? Il sacerdote catodico “par exellence” nota la fiacchezza di un Benigni ritrito e su san Rosario dice queste cose qui: «Fiorello sa interpretare come pochi lo spirito nazionale, l’unica cosa che ci tiene insieme, destra e sinistra, profilattici compresi: la nostra meravigliosa semplicioneria sentimentale, quella fatuità dolce che ci strappa una risata anche nei momenti peggiori». Ecco l’essenza del nazionalpopolare. Quello che va a genio ai nuovi radical chic postberlusconiani. Qualcosa di piuttosto evidente ma che non indigna o fa schifare i nazionalpopolar-friendly. Sarà il Natale che si avvicina, durante il quale siamo tutti più buoni, sarà quello che volete, ma ora il popolo piace anche se fino all’altro giorno bue, buzzurro e puzzolente. «Il più grande spettacolo dopo il weekend è stato uno show che ci ha riconciliati con la professionalità. (…) Per la gioia dei complottisti e dei rosiconi che potranno vedere in queste convergenze un efferato disegno sublimato dalla spensieratezza “democristiana” di Fiorello». Ma la professionalità può bastare? Secondo Abbate è addirittura, nel caso di Fiorello, un’aggravante, mentre Aldo Grasso e la Zanardo ripetono quello che dice anche la casalinga dall’ortofrutta: “Fiorello è bravo. Fa ridere, sa presentare e sa cantare”. Esticazzi, dico io. Che mi frega di sentire Fiorello cantare, imitare, presentare, intrattenere? Posso credere di vivere meglio senza vederlo cantare, imitare, presentare, intrattenere? A quanto pare, secondo la stampa, esiste al contrario il dovere intellettuale di esaminare il fenomeno tirando fuori la maieutica (Zanardo) o la sociologia dei semplici (Grasso). Ad ogni modo dal Fiorello-show non si scampa. Dovere di italiano misurarsi con la sua professionalità. Impressionatevi o non onorerete la bandiera. Un po’ lo stesso atteggiamento che si è soliti riservare a Benigni: lui legge Dante. Come a voler dire: Benigni è Benigni (ha vinto l’Oscar, mecojoni) e poi se uno legge Dante, legge Dante, mica cazzi. Se leggesse Proust non lo cagherebbe quasi nessuno, ma poco importa. Quindi Benigni legge Dante e Fiorello sa fare tutto: eroi nazionali. E se tu non lo riconosci sei uno stronzo.

Morale della favola: i bonzi del pensiero unico colpiscono ancora. Il dibattito “Fiorello-ha-fatto-il-botto-quindi-merita” vs. “Fiorello-piace-a-tutti-quindi-fa-schifo” non è altro che il prodotto di un tale conformismo. E se qualcuno agita la bandiera del sacrosanto “sticazzi” è uno sfigato fuori dal mondo, un astioso senza arte né parte. Ma tra i due fronti l’un contro l’altro armato non vi è una reale contrapposizione (un po’ lo stesso discorso che si faceva anni fa con Berlusconi). In mezzo vi è il consenso messmediatico: il successo come somma di voci. Non a caso si parla di tv generalista, e difatti, cari miei, lo share è bipartisan. Alla Rai mica frega per quale motivo guardi Fiorello, se l’apprezzi o lo infami. Loro si sfregano ugualmente le mani. L’omologazione passa quindi per l’imprescindibilità dell’evento in sé. Il buon senso suggerisce l’obbligo dello smarcarsi da certi derby rionali ma in questo caso no, non si può, perché l’auditel ce lo impone come un affare di stato, proprio come l’ICI sulla prima casa (a proposito: a quando l’ICI sulla prima chiesa?…).

Ora rivolgo una domanda ai compiaciuti del nazionalpopolare ritrovato: ma se uno il lunedì decideva di spendere la propria serata guardando Biscardi è più o meno scimmia di chi televotava le nomination del GF o di chi si infervorava durante le orazioni civili di Benigni che prende quel che prende di cachet in tempo di crisi salvo poi devolverlo in beneficenza (perché allora la Rai dovrebbe far passare il denaro nelle mani del comico? Perché non darlo direttamente agli orfanelli)? E se invece quel lunedì sera quel tale non avesse acceso la tv, perché fuori con gli amici, o con la fidanzata, o a leggere un libro, o a vedere un film, o a chattare davanti al computer? Chi è in grado di misurare le persone con l’italiano-mediometro? Probabilmente è anche questo il punto: e cioè che esiste altro oltre alla fuffa, alle diatribe tra scribacchini e meteorini dell’auditel e cioè la vita, la socialità o il fottutissimo e beato dolce far nulla a rimirar il soffitto. Quindi esistere senza la tv, Fiorello e lo share. Sapete, ogni tanto si può farne a meno. Perché non è la marca del populismo dal quale si attinge da determinare la genetica di un individuo. Se invece l’Italia si sveglia la mattina credendosi più intelligente perché la sera prima ha guardato Fiorello anziché il Grande Fratello, ecco, credo che questo sia un problema. Il classico calo d’intelligenza in favore dell’ego. Succede spesso in Italia. Leggo Saviano, guardo Santoro, seguo Travaglio e sono un italiano d.o.p. Al giorno d’oggi ci basta addirittura Fiorello: l’effetto day after dalla dipartita di Berlusconi? E quindi, se non si fosse ancora capito, la lezione che dovremmo apprendere è la seguente: evviva l’Italia postberlusconiana che finalmente distrugge il GF e riparte da Fiorello e da Jovanotti. Ora siamo a cavallo, possiamo riprenderci il nostro futuro lanciandoci alla carica sulle note della Pausini.

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