Le lacrime dei Wikirivoluzionari

di Alberto Bullado.

Ora piange pure Wikipedia. Ed è quantomeno bizzarro che la cosa si ripeta dopo che, nei giorni scorsi, ad aver versato lacrime era stata Nonciclopedia, ovvero la parodia politicamente scorretta dell’enciclopedia online più famosa e frequentata al mondo. Wikipedia piange e come molti lo fa in anticipo. Una moda che se da una parte rivela un’attitudine vagamente vittimista – dalle nostre parti si dice “piangina” – dall’altra produce una visibilità ed un facile consenso niente affatto trascurabili. E così è stato: il popolo della rete, un vero e proprio ordigno ad orologeria di isterici tormentoni comunicativi[1] e crogiuolo di crociate e imperativi morali da un tanto al chilo, insorge contro la censura, anche se in assenza della stessa. A far da eco il solito tam tam mediatico. Gli esperti di comunicazione fanno sapere come l’argomento più dibattuto su Twitter sia, manco a dirlo, #Wikipedia (un record di commenti, condivisioni ecc…). Insomma, come servirti il caso mediatico del giorno su un piatto d’argento.

Voi sapete che Wikipedia ce l’ha con il nuovo DDL intercettazioni, perché si tratta di «un disegno di legge in fase di approvazione alla Camera (che) potrebbe minare alla base la neutralità di Wikipedia» (riporto direttamente dalla home page dell’enciclopedia online). Sorvolerei su quel «gli utenti di Wikipedia in lingua italiana hanno ritenuto necessario», altrimenti occorrerebbe porsi delle domande come: chi sono gli utenti di Wikipedia? Perché non si firmano? Ma non si trattava di un’enciclopedia open source? Perciò che senso ha parlare di «utenti di Wikipedia in lingua italiana»? Tutti o solo qualcuno? Quindi esisterebbe un summit con il potere di tirare le fila dell’intera community? Ma come dicevo, chissenefrega, lasciamo perdere, il punto è un altro: nessuno oscurerà Wikipedia, a meno che non sia Wikipedia a volerlo. E non Wikipedia in senso globale, ma la sola versione italiana. Questo per fare chiarezza. Quindi, partendo dalle cose più ovvie, va anche detto che è indubbio che la legge in questione è una cattiva legge, ridicola e persino inutile, in quanto esiste già il reato di calunnia, così come esistono i mezzi legali e giuridici per togliere di mezzo dei contenuti condivisi su internet[2]. Ma è allo stesso modo indubbio che: primo, stiamo parlando di un caso pronto a sgonfiarsi nel giro di qualche giorno, secondo, Wikipedia non chiuderà, terzo, il comportamento virale e bamboccione della nostra società, o opinione pubblica, eccelle in superficialità, vittimismo e provincialismo. Se non ci si accorge di questo aspetto significa che la metastasi è già in fase terminale. Mi auguro di no, altrimenti altro che Wikipedia, sarebbe da auspicare l’oscuramento di Facebook e YouPorn, cosa che potrebbe effettivamente causare una vera e propria rivoluzione a differenza dei salassi dell’Europa Unita.

Naturalmente c’è da dire dell’altro. Inutile commentare le ridicole reazioni dei politici alle quali, però, seguono quelle più interessanti di altre personalità della cultura e dell’informazione. Ad esempio Milena Gabanelli va vicino al punto, nel senso che lo sfiora senza prenderlo di petto: «Si può vivere senza tutto, dunque anche senza Wikipedia. Ma la domanda è: perché succede questo?», un interrogativo retorico che penzola nell’aria come un salame. È ovvio che il potere, qualsiasi forma di potere, è repressivo e coercitivo. Se non si capisce che internet, tra le tante cose, è anche l’ennesimo campo di battaglia per il controllo del potere significa, nel 2011, fare la figura dei fessi. Quello che di interessante è stato detto dalla Gabanelli è invece altro: “si può vivere benissimo senza Wikipedia” ma lei si ferma lì. Io invece andrei oltre: l’irrinunciabilità, data per certa, di Wikipedia non solo non ha ragione d’essere in una società veramente libera e democratica ma credere assolutamente necessaria l’esistenza di Wilipedia è al contrario segno di una collettività intimamente portata alla non democrazia e soprattutto all’ignoranza, stiamo quindi parlando di un’involuzione piuttosto diffusa. La domanda da farsi non è quindi “perché qualcuno vuole rompere le scatole a Wikipedia?”, la risposta è pressoché ovvia ed alla portata di tutti, ma “perché la gente difende strenuamente Wikipedia come se si trattasse di un ganglio fondamentale della democrazia anche quando in realtà non lo è affatto?”.

La “febbre da censura”, della quale il popolo italiano è affetto da qualche anno a questa parte (per ovvie contingenze storiche, politiche, culturali e mediatiche) è una forma di strana paranoia che non può che scuotere gli animi di un popolo fondamentalmente esasperato e che ha smarrito il senso della misura da un pezzo. Il risultato è apprendere che, al giorno d’oggi, leggere e difendere Wikipedia significherebbe “fare la rivoluzione” – una convinzione condivisa tanto dallo scemo del villaggio quanto dal professore universitario. Ma è evidente che si tratta di un ossimoro ridicolo. Riflettiamoci. Nella società della paranoia libertaria e della pluralità si recepisce come una lotta per la democrazia il fatto di difendere il più grande collettore d’informazioni del web. Alla faccia della molteplicità di scelta e della mobilità d’opinione, della varietà delle fonti e della qualità delle stesse. Stiamo invece parlando di un’enciclopedia online che nutre un bacino d’utenza certamente variegato ma anche fortemente connotato da conformismi ed automatismi comportamentali e culturali che non favoriscono di certo la democrazia e la cultura.

E qui arriviamo al dunque: la cultura, ovvero la migliore terapia contro le derive del potere ed il decadimento civile ed individuale. È la cultura che ci permette di essere liberi, di “salvarci la vita”: non ci può essere democrazia senza cultura, concetti recentemente espressi da Umberto Galiberti proprio qui a Padova (in occasione della Fiera delle Parole). Ma se passa il concetto che la cultura è Wikipedia o che debba essere filtrata o fruita necessariamente attraverso Wikipedia, solamente perché strumento dalla portata globale e di facile mercato, beh, allora stiamo freschi. Ci meritiamo l’atomica altro che il DDL intercettazioni.
Il fraintendimento che sta all’origine di tutto è il seguente: è la cultura ad essere rivoluzionaria, lo è di meno conformarsi ad un automatismo, come la consultazione pedissequa e plebiscitaria ad un’unica fonte d’informazione, peraltro discutibile. Come scoperchiare un vaso di Pandora…

Robert McHenry, editor in chief dell’Encyclopedia Britannica, parlando di Wikipedia – argomento che ha agitato ed agitata tutt’ora uno dei dibattiti più animati delle accademie anglosassoni – disse  una cosa secondo me molto vera ma controversa : Wikipedia è come un cesso pubblico. Non sai mai chi c’è stato prima di te. Sacrosanta verità. Wikipedia è alla portata di tutti e chiunque può modificarne i contenuti (espediente che rende l’enciclopedia online, di fatto, espandibile all’infinito e che garantisce un numero di voci impressionanti). Come in un cesso pubblico l’accesso è libero. Ti potresti beccare un’infezione genitale piuttosto dei pidocchi, ma è allo stesso modo un luogo dannatamente utile. Come un cesso pubblico, nei casi di emergenza, può salvarti la vita. E come un cesso pubblico può ospitare al giorno migliaia di sconosciuti. In questo modo il cesso può essere anche vandalizzato. Spero sia passato il concetto. Quella della Wikipedia-toilet è una metafora molto efficace. Da una parte esprime l’idea di un igiene compromesso dalla vasta utenza, dall’altra sancisce l’indispensabilità fisiologica di un mezzo come Wikipedia data dalla vastità dell’utenza stessa, non trascurabile ma potenzialmente indisciplinata. A confermare tutto ciò una seconda metafora, anch’essa gustosa, questa volta di James Wales, che per la cronaca è quel tizio che tempo fa vi chiedeva un euro per Wikipedia facendo leva con il suo sguardo magnetico: Wikipedia è come una salsiccia. È buona ma non vuoi sapere cosa c’è dentro[3]. Touché. Domanda: è davvero cultura quella dei cessi e delle fabbriche delle salsicce?

Ma non è questo il punto. Sulla bontà ontologica di Wikipedia lasciamo discutere le cattedre, qui si tratta di parlare di cose più terra-terra. Come quelle contenute in un articolo che scrissi qualche tempo fa, contenuto in CAM#04 (Società Wikipedia): il nostro è un popolo caratterizzato da una profonda ignoranza di massa e di una preoccupante carenza di coscienza critica, su più livelli e su tutti i fronti. La cultura, distante dalla società, recepita come un’entità alle volte persino ostile, ben che vada, viene recepita tramite copia-incolla decontestualizzati. Dopotutto siamo quel paese con una media annuale di libri letti pro capite dello zero virgola. Venti milioni e trecentomila sono gli italiani che non aprono un libro da almeno un anno. Due milioni e trecentomila famiglie non possiedono nemmeno un libro in casa. Ora non si tratta di fare della triste nostalgia della Treccani, ma è chiaro che queste sono cifre che delineano una società non libera per vocazione perché ignorante anche a fronte di un uso smodato di Wikipedia.

C’è da dire che Wikipedia per molti è l’esperienza intellettuale privilegiata, se non l’unica, della loro vita. La principale o sola fonte di informazioni fruita e contemplata da un vasto bacino di utenti. Parlo di gente che ritiene sufficiente basare la propria acquisizione di informazioni e cultura in questo modo: inutile sbattersi più di tanto perché c’è Wikipedia che riporta tutto quello che serve[4]. Possiamo andare avanti quanto vogliamo con il piagnisteo della libertà violata e con la demagogia pecoreccia tipica di certi retori del web (internet sarà sempre e comunque una trappola del potere, sveglia!) ma vale di certo la pena riflettere sulla salute di una società che si indigna di fronte alla privazione di un bignami del sapere e non della cultura in sé (dai tagli alla riforma dell’università), che non conosce, che non sa distinguere, che non fruisce e che non sa fruire in altri modi diversi se non attraverso certi bignami (quando va bene). Forse è questo il dato più grave di tutta la vicenda. I libri sono lì, basta andarli a prendere. Se invece vogliamo lasciar perdere la carta, internet offre ugualmente altri mezzi per approvvigionarci di qualsiasi tipo di informazione (siamo davvero convinti che prima di Wikipedia fossimo tutti dei trogloditi immersi in una sorta di paleolitico postmoderno?), certo bisognerebbe saper usare il mezzo: un po’ come l’automobile, per saperla guidare occorrerebbe non tanto possedere una patente o un’utilitaria ma essersi sottoposti a delle prove di guida pratica.

Infine qualche conclusione talmente ovvia e sacrosanta che non ho riportato all’inizio di questo mio intervento per rispetto dell’intelligenza del lettore:

1)    Davvero Wikipedia rappresenta un’emergenza? Non sarebbe meglio preoccuparci dei nostri risparmi? Trovo piuttosto sintomatico il fatto che sul web e sui social network la diatriba su Wikipedia occupi il doppio se non il triplo di spazio dedicato invece alla declassazione economica del nostro paese. Anche qui sempre il solito discorso: la percezione distorta dell’opinione pubblica (sempre alla ricerca di rivoluzioni pop e ludiche pur di non affrontare la vera “apocalisse”), la perdita della misura e le discutibili priorità di un popolo tanto ipersensibile quanto distratto.

2)    Il web rimarrebbe comunque un dinosauro di autocomunicazione, un ricettacolo virale di informazioni e controinformazione anche senza Wikipedia (la versione italiana).

3)    Se proprio tenete così tanto a Wikipedia perché non leggervela in inglese, Cristo Santo! In questo modo, oltre a fare esercizio con la lingua, avete la possibilità di fruire maggiori informazioni dal momento che nella versione inglese c’è quasi sempre più roba (a meno che non state cercando la biografia di Martufello) e spesso le voci contenute nella versione italiana non sono altro che la traduzione posticcia di quelle inglesi. Da una parte c’è Grillo che vorrebbe insegnare la lingua straniera a cominciare dall’asilo, dall’altra i ribelli più stagionati (dai 20 anni in su) che si strappano le vesti per la sola minaccia di non poter più fruire il proprio bignami nella loro lingua: ma fatemi il piacere…

È evidente che la libertà, la cultura e la democrazia, entità inscindibili l’una dall’altra, non sono alla portata di un click. E chi afferma il contrario non è un uomo libero o che lotta per la democrazia, ma un essere fondamentalmente pigro e confuso, che confonde la pantofola con il paradiso e che la libertà e la democrazia, alla fine dei conti, non se le merita nemmeno.


[1] Qualche giorno fa è stato il turno dell’Anti-Vasco Day, al quale il sottoscritto ha aderito non tanto per una lotta di libertà (sic!) ma per un’antipatia recondita verso un personaggio da tempo inutile (per questa ragione ho invece ritenuto utile spiegare perché la sua carriera di comunicatore o di “social rocker” avrebbe dovuto volgere al termine). Ora a tenere banco è la morte di Steve Jobs, celebrata alla stregua della dipertita di Lady D (sono in molti a trascurare il lato neo-capitalista oltre che il ridicolo culto feticista sorto attorno ai prodotti della Apple: a tal fine rimando ad un interessante articolo dei Wu Ming): fenomeni che denotano, come se ce ne fosse ancora bisogno, l’irruenza di quell’“effetto Barbra Streisand” che andrebbe però chiamato con il suo vero nome: viralità autocomunicativa.

[2] Che io sappia Filippo Facci era già riuscito a cancellare la propria voce causa scorrettezze e, secondo lui e i suoi avvocati, calunnie. Credo che ci siano molti altri casi simili. Questo per dire che se si vuole si può già eliminare alcune voci ritenute per una qualche ragione scorrette o “scomode”. Quindi il problema di “censura”, come si usa dire, c’è anche adesso. Vero è che, a quanto pare, con la nuova legge la cosa diventa più semplice ed anonima. Tizio denuncia Caio che scrive cazzate. Caio viene perseguito ed i contenuti di Caio eliminati. Naturalmente il procedimento non potrà mai essere così automatico e soggettivo, ma alla gente piace crederci.

[3] Citazioni prese da qui risalenti al 2004.

[4] Proprio l’altro giorno hanno trasmesso quella puntata dei Simpson dove un nuovo e giovane insegnate, fresco di master vattelapesca, conquista i ragazzini con il suo appeal multimediale, insegnando ai bambini che è inutile studiare ed immagazzinare molte informazioni (leggi anche “farsi una cultura”) se queste stesse informazioni possono essere raggiunte nel giro di pochi secondi dal proprio smart phone.

Comments
2 Responses to “Le lacrime dei Wikirivoluzionari”
    • conaltrimezzipd ha detto:

      ConAltriMezzi si trasferisce su http://www.conaltrimezzi.com/
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